giovedì 22 febbraio 2018

Le profezie di Bill Gates

Circa venti anni fa, Bill Gates nel suo libro 'Business @ the Speed of Thought' faceva 15 previsioni che all’epoca risuonarono come folli e impossibili ma che oggi si sono realizzate e fanno parte della maggior parte delle innovazioni tecnologiche moderne.
L’imprenditore nel 1999 aveva pensato a un grande proliferare dei siti per paragonare i prezzi, in particolare quelli legati ai vestiti e agli accessori. Per Gates questo sarebbe stato normale perché la concorrenza creata dalla Rete avrebbe portato a delle soluzioni per agevolare il consumatore nella scelta più conveniente possibile. Al giorno d’oggi siti del genere sono ampiamente utilizzati. Alcuni di questi portali permettono anche di fare preventivi per spese molto più importanti di un semplice abito.

I wearable
Al giorno d’oggi i wearable non stupiscono. Quasi tutti abbiamo un oggetto intelligente che portiamo sempre con noi e che indossiamo come se niente fosse. Nel libro Gates scrisse: “In futuro tutti avremo un piccolo dispositivo intelligente e indossabile. Questo ci permetterà di fare chiamate, di lavorare, leggere notizie e prenotare dei voli”. In pratica ha anticipato gli smartwatch.
Pagamenti e assistenza sanitaria
Nel libro “Business @ the Speed of Thought”, Gates ha previsto anche i pagamenti online di bollette e servizi e le comunicazioni con il proprio medico direttamente da particolari portali telematici. Per quanto riguarda i pagamenti Bill Gates ha azzeccato tutto. Anzi, oggi il settore è uno dei più floridi, proprio grazie alla Rete. E il pagamento in contanti è sempre meno indispensabile. Per quanto riguarda l’assistenza medica ancora dobbiamo fare il definitivo salto di qualità ma non mancano app e siti simili a quelli previsti da Bill Gates.

Internet Of Things
Gates descrivendo più approfonditamente i wearable nel libro ha previsto che in futuro gli oggetti intelligenti si sarebbero trovati dappertutto e la nostra vita sarebbe stata semplificata dall’interscambio dei dati tra questi dispositivi. Gates nel libro aveva previsto oggetti intelligenti che ci aiutano nella spesa o a preparare ricette in base a ciò che abbiamo in frigo. Tutte cose che al giorno d’oggi sono la normalità. In pratica l’Internet of Things era già stato previsto.

Social media
Sul libro nel 1999 Gates scrive: “in futuro ci saranno siti web privati per i tuoi amici e la famiglia che consentiranno di chattare e pianificare eventi”. Vi suona familiare? Sì, esatto è Facebook. Al giorno d’oggi siamo abituati ad avere social praticamente per tutto ma a fine anni Novanta il concetto risuonò come rivoluzionario.

Videocamere per la casa
Gates nel 1999 pensò che nel tempo le telecamere per la casa sarebbero state sempre più usate. Anche in questo caso gli eventi hanno confermato la tesi dell’imprenditore. Oggi abbiamo anche telecamere come PetCube, che consentono di controllare un laser in modo da poter giocare con i nostri animali domestici mentre siamo fuori di casa.

Pianificazione vacanze
Al giorno d’oggi tutti sanno usare siti come Expedia o Booking per pianificare la propria vacanza e spendere il meno possibile. Nel 1999 Gates predisse anche questo. Nel libro scrisse: “In futuro ci saranno software che sanno quando abbiamo prenotato un viaggio e utilizzano queste informazioni per suggerire attività, sconti e luoghi da visitare nella nostra meta di destinazione.

Twitter
Gates, fine conoscitore dello sviluppo sociale di Internet, nel 1999 descrisse piattaforme come Twitter. Nel libro parlò di: “Piattaforme per commentare in diretta ciò che sta accadendo durante la visione di una competizione sportiva in televisione”.

Pubblicità personalizzata
Sempre parlando di software personalizzati, come quelli descritti per le vacanze, Gates predisse le pubblicità personalizzate. Ovvero ciò che con Google e con le varie applicazioni e social è diventato la normalità per gli utenti di oggi.

Smart TV
Per Gates le televisioni sarebbero state dotate di servizi che si trovano anche sul web e di connessione per poter cliccare a link di approfondimenti per capire meglio quello che guardiamo. Niente di nuovo per chi ha in salotto una Smart TV.

Lavoro
Internet ha rivoluzionato il mondo del lavoro e Bill Gates se lo aspettava quasi 20 anni fa. Parlò di programmi per la condivisione di progetti, molto simili a quelli che usiamo oggi. Strumenti come Google Drive per fare un esempio. E anche il recruitment è stato particolarmente influenzato dal web. Gates nel 2019 predisse piattaforme come LinkedIn. E al tempo stesso Gates parlò di software aziendali in grado di esternalizzare alcuni compiti in base a competenze specifiche. Esistono diverse piattaforme che al giorno d’oggi offrono a freelance (copywriter o designer per fare degli esempi) dei contratti a tempo. Anche se in Italia non sono molto sviluppati.



Fonte: Bill Gates, il profeta: si avverano le 15 previsioni fatte 20 anni fa

mercoledì 21 febbraio 2018

Flipped classroom - La classe capovolta

Il flip teaching è una metodologia didattica che sta prendendo campo all'estero negli ultimi anni. Le classi coinvolte in questa metodologia, dette flipped classroom, sono protagoniste di una inversione delle modalità di insegnamento tradizionale in cui il docente è il dispensatore del sapere e l'allievo recepisce, esercitandosi prevalentemente a casa. Le attività avvengono in modalità blended e, di conseguenza, è fondamentale l'uso delle nuove tecnologie per fornire le adeguate risorse agli allievi al di fuori del contesto classe. Infatti, gli allievi hanno a disposizione una ingente quantità di materiali didattiche, che possono condividere, annotare, modificare o addirittura creare in maniera collaborativa. Fondamentale è il ruolo dei forum di discussione, in quanto si permette all'allievo di imparare in maniera costruttiva e di raggiungere diversi obiettivi trasversali afferenti all'area delle relazioni. Si utilizza il termine "flip" in quando viene ribaltata la modalità in cui vengono proposti i contenuti e i tempi utili per l'apprendimento. In una flipped classroom la responsabilità del processo di insegnamento viene in un certo senso "trasferita" agli studenti, i quali possono controllare l'accesso ai contenuti in modo diretto, avere a disposizione i tempi necessari per l'apprendimento e la valutazione. L'insegnante diventa quindi un supporto alla comprensione di quanto appreso a mano a mano dagli allievi e dovrà impiegare il proprio tempo in questo processo di passaggio dall'ampliamento delle conoscenze all'acquisizione di capacità e competenze. Come per tutte le metodologie didattiche, anche il flip teaching presenta punti di forza e punti di criticità. Di certo tale modalità di insegnamento favorisce l'individualizzazione e la personalizzazione dei percorsi di insegnamento, in quanto gli insegnanti possono dare delle precise indicazioni agli allievi su come muoversi e sulle risorse che ciascuno di loro può utilizzare. Verranno certamente penalizzati i rapporti interpersonali, in quanto l'allievo avrà un contatto molto stretto con il computer sia a scuola che a casa! Inoltre, gli educatori saranno costretti a riflettere su come strutturare e proporre i contenuti, rischiando di focalizzare l'attenzione sul contenuto, piuttosto che sull'apprendimento.
Una flipped classroom, dunque è un modello pedagogico nel quale le classiche lezioni e l’assegnazione del lavoro da svolgere a casa, vengono capovolti. L’insegnante assegna per casa ai propri studenti alcuni video da seguire su un dato argomento, prima di trattarlo in classe. In questo modo, poiché gli studenti hanno già un’infarinatura generale dei contenuti da affrontare, si può dedicare il tempo a disposizione a scuola per dare chiarimenti, effettuare delle esercitazioni e qualsiasi altra attività funzionale ad una migliore comprensione. Ciò richiede, da parte del docente, un’attentissima selezione delle risorse video che devono essere catalogate all’interno di un apposito corso on line creato per gli studenti. Questi ultimi, infatti, collegandosi nello spazio virtuale, hanno sempre disposizione i materiali didattici che il docente ha selezionato e/o creato proprio per loro e possono utilizzarli in qualsiasi momento della giornata. Il vantaggio del flip teaching sta proprio nella possibilità di utilizzare in maniera diversa le ore di lezione settimanali dedicate all’insegnamento di una data disciplina, permettendo anche gli studenti di costruire il proprio sapere e di testare in qualsiasi momento le proprie competenze. Il ruolo del docente sarà quello di “guida” che incoraggia gli studenti alla ricerca personale e alla collaborazione e condivisione dei saperi appresi. Non esiste un unico modello di insegnamento capovolto, anche se nel modello standard la classe capovolta è vista come un ambiente di lavoro in cui gli studenti sono indirizzati verso l’uso di selezionati materiali didattici. Tra questi rientrano anche i quiz online per testare il livello raggiunto, con particolare uso dei quiz con feedback, per permettere di imparare dai propri errori. Gli studenti possono inoltre collaborare e in classe si possono avviare diverse discussioni tra loro, che permetteranno di chiarire meglio determinati concetti importanti appresi autonomamente. Il docente potrebbe anche suddividere gli studenti in piccoli gruppi e attribuire loro alcune specifiche situazioni problematiche da trattare. Un numero sempre maggiore di istituzioni educative, soprattutto in America, si stanno “convertendo” a questa nuova metodologia didattica. Per esempio presso l’Algonquin College sono state realizzate una serie di lezioni video per spiegare le procedure di editing dei software, procedure che non possono essere facilmente presentate in una semplice lezione frontale. Durante una tradizionale lezione, gli studenti provano spesso a carpire il maggior numero possibile delle informazioni date dal docente, annotando, a volte, freneticamente, il maggior numero di parole possibile sui loro quaderni. Ciò non permette loro di soffermarsi sui concetti, proprio perché sono concentrati su una scrittura forsennata, che li distoglie dalla comprensione di determinati nodi concettuali importanti. L’uso dei video, invece, permette agli studenti di ascoltare e riascoltare in qualsiasi momento le parole del docente. Le discussione che verranno avviate in classe permetteranno agli studenti di socializzare e collaborare nella risoluzione di un problema comune.
Le attività in stile flipped possono essere facilmente realizzate, ma è altrettanto semplice fare un uso sbagliato di questa metodologia. Infatti, essa richiede una particolare attenzione nella fase di programmazione delle attività e di selezione dei materiali didattici da sottoporre ai discenti. Inoltre, la registrazione delle lezioni richiede molto tempo e la capacità di utilizzare gli strumenti adeguati per la realizzazione di podcast. Di contro, gli studenti abituati al costante supporto del docente, potrebbero sentirsi smarriti quando utilizzano i materiali online e si potrebbe generare un fenomeno di dispersione delle conoscenze. Come detto, con il proliferare delle flipped classroom, sarà necessario utilizzare nuovi strumenti di supporto alla didattica e andrebbe anche rivisto il curricolo scolastico. Il ruolo degli educatori sarebbe molto differente da quello attuale, in quanto sarà dispensabile effettuare un lavoro volto alla collaborazione costante durante i vari processi di insegnamento/apprendimento. Inoltre, gli studenti diventerebbero ancora più parte attiva delle attività didattiche e, di conseguenza, il loro carico di lavoro sarebbe maggiore.


martedì 13 febbraio 2018

Algoritmi e la nuova Algocrazia

Un algoritmo è un modello matematico che racchiude istruzioni per risolvere un problema o effettuare delle attività. L’Intelligenza Artificiale (IA) non è altro che un insieme di algoritmi, ciò che vediamo sul social network è frutto del lavoro degli algoritmi, persino le notizie cui accediamo da web o mobile sono il lavoro della selezione fatta da modelli matematici ‘tradotti’ in codice informatico. La maggior parte delle transazioni finanziarie avviene per mezzo degli algoritmi, gli assistenti vocali che utilizziamo ormai quotidianamente funzionano grazie ad essi, così come i sistemi di riconoscimento facciale che ci permettono di ‘tenere in ordine’ le nostre foto (e di fare molto altro come, per esempio, controllare l’identità delle persone) o quelli che costruiscono automobili o le guidano autonomamente sulle nostre strade. Sono strumenti per lo più invisibili ma in grado di aiutare ed ‘aumentare’ le nostre vite supportandoci nella quotidianità, nel lavoro, nel business. Il rovescio della medaglia è che in quella che già oggi molti chiamano l’età degli algoritmi, il mondo potrebbe essere governato dall’intelligenza artificiale concentrando ‘il potere’ (sociale, economico e politico) nelle mani di coloro che sono in grado di modellare e controllare gli algoritmi. Diventa quindi prioritario, in questa delicata fase evolutiva dell’informatica e della storia umana, studiare e capire quali sono non solo le potenzialità e le opportunità che questi sistemi offrono, indubbiamente innumerevoli, ma anche gli impatti macroeconomici, sociali, politici, organizzativi per arrivare a definire una nuova cultura (basata sul codice) e le regole entro le quali questa può espandersi.
Sono gli algoritmi, oggi, a decidere cosa dobbiamo sapere durante le nostre ricerche online – con l’algoritmo di Google a farla da padrone – cosa dobbiamo leggere (il NewsFeed di Facebook, esempio più evidente di quelle che Eli Pariser chiama “filter bubble” o “eco chamber”, “camere dell’eco” che proponendoci cose culturalmente ed ideologicamente consone alla nostra visione del mondo, la rafforzano tenendo fuori dalla nostra conoscenza tutte le opinioni differenti) e a consigliarci quali acquisti potrebbero interessarci nei nostri shop online e quale candidato votare. Scriveva Pariser in un articolo pubblicato nel 2011 su Internazionale.
A. Aneesh, professore associato presso la cattedra di sociologia dell’Università statunitense del Wisconsin-Milwaukee, definisce questo sistema come una vera e propria “algocrazia”, guidata in regime di segretezza dalle imprese della Silicon Valley e di Wall Street, che hanno invece pieno accesso ai nostri dati e, dunque, alle nostre vite. Una delle tante sfaccettature di quella che Frank Pasquale – professore di legge all’Università del Maryland – ha definito in un suo libro pubblicato dalla Harvard University Press nel 2015 “black box society”, nella quale siamo tenuti all’oscuro delle modalità in cui vengono prese le decisioni che ci riguardano.
Esponendo la malattia, nel suo libro Pasquale individua anche alcune possibilità di cura, come il miglioramento delle legislazioni sull’uso dei dati personali o la necessità di rendere più chiari i contratti e i loro termini di utilizzo, peraltro al centro di un interessante documentario realizzato da Cullen Hoback nel 2013 dal titolo “Terms and Conditions May Apply” (o “Zero Privacy” nella versione in italiano) e lavorare per una trasparenza “qualificata”, che rispetti cioè gli interessi delle persone coinvolte senza trasformare la trasparenza in una nuova ideologia religiosa.
In questo contesto, ciò che dovrebbe farci riflettere, secondo Aneesh (i cui studi si sono sempre prevalentemente concentrati sull’analisi dei nuovi modelli organizzativi e della burocrazia che si viene a ‘disegnare’ mediante la tecnologia) è il fatto che il linguaggio di programmazione (il codice) sembra essere di per sé “la struttura organizzativa chiave dietro questa nuova migrazione virtuale”. Per capire esattamente cosa intenda il professore dobbiamo fare un salto indietro. “Era il 1999 quando, cercando una software company in India, rimasi colpito dal fatto che la maggior parte delle applicazioni che utilizzavamo non erano mai state create ‘in un unico posto’. La maggior parte del software veniva (e viene tuttora) sviluppata in più luoghi contemporaneamente: team diversi, ‘seduti’ in continenti e paesi differenti lavorano allo stesso progetto. Conoscevo la ‘letteratura’ riguardante l’avvento dei grandi sistemi gestionali centrali (gli Erp) quale elemento cruciale per il coordinamento delle ‘enormi’ attività burocratiche delle organizzazioni aziendali – spiega Aneesh -, ma nel caso dello sviluppo software globale non è mai stato possibile avere una sorta di ‘middle managerial layer’ per il coordinamento centralizzato dei team e dei diversi ‘regimi’ di lavoro dei differenti paesi del globo”.
Scenario ancor più evidente se si pensa allo sviluppo di codice open source dove le community di sviluppatori presenti in tutto il mondo si coordinano ‘semplicemente’ con modello di autogestione.
Qualche tempo dopo queste prime considerazioni, un giorno seduto accanto ad un programmatore, guardando lo schermo sul quale stava lavorando, Aneesh ha avuto un’intuizione: “è il software stesso a fare da direttore dei lavori!”. Aneesh aveva notato così tanti controlli di accesso integrati nella piattaforma software su cui stava lavorando il programmatore “che non c’era alcun bisogno di un manager umano a dirigere i lavori”, aveva pensato. Quando nel 1998, durante la scuola di specializzazione, Aneesh scrisse il suo primo ‘paper’ sul tema dell’hyper-bureaucracy (pubblicato l’anno dopo) per descrivere un sistema iper-burocratico ‘fuori controllo’, ancora non aveva compreso del tutto che il codice – nella sua teoria – è esso stesso ‘organizzazione’, visione che gli è apparsa più chiara dopo aver visto all’opera il programmatore. “In mancanza di un vocabolo migliore ho coniato il termine ‘algocracy’ per identificare ‘le regole del codice’ (o di un algoritmo) quale modello di organizzazione che può sostituire le ‘regole di un ufficio’ (la burocrazia di un’azienda o di un sistema economico)”, descrive Aneesh. “L’algocrazia tende ad appiattire tutte le gerarchie burocratiche perché non necessita di alcun livello di gestione intermedio o centralizzato che sia”.
Per dettagliare ancora meglio in che modo la nostra società ed i nostri modelli organizzativi, non solo lavorativi ma anche sociali ed economici, possono essere modificati dalle tecnologie, in generale, dagli algoritmi nello specifico, Aneesh fa un esempio molto semplice riguardante il controllo del traffico e delle violazioni degli automobilisti. “Il controllo mediante l’utilizzo dei semafori implica per gli automobilisti il rispetto di alcune regole (per esempio, fermarsi in presenza del rosso) le cui violazioni possono essere rilevate direttamente dalla polizia stradale”, spiega Aneesh. “Questo modello organizzativo/comportamentale funziona per due motivi: l’interiorizzazione delle regole da parte degli automobilisti, che orientano le loro azioni, e la minaccia della pena come conseguenza di un’azione errata”.
Questo primo modello rappresenta un’organizzazione burocratica (seguire il rosso, arancione o verde equivale a seguire le regole di un’azienda o di una società civile) ma, fa presente Aneesh, “quanti automobilisti ci sono che non rispettano lo stop o il rosso senza essere ‘beccati’ dalla polizia?”.
C’è poi un secondo metodo di controllo, basato sull’utilizzo delle videocamere che riprendono il traffico e potenzialmente catturano tutte le violazioni degli automobilisti. “Le regole sono ovviamente le medesime del modello precedente ma, con questo tipo di organizzazione, ad ogni violazione rilevata viene emessa una multa recapitata al trasgressore con una fotografia come prova dell’illecito”, spiega Aneesh. “Un sistema tecnologico di questo tipo, impiegato nella sua massima capacità è in grado di rilevare tutte le violazioni e la notifica diventa la conseguenza dell’azione ‘fuori regola’ di una persona”. In questo caso, il modello organizzativo viene identificato come panottico.
Infine, c’è il modello algocratico che, nell’esempio di Aneesh, diventa un sistema di auto-controllo del traffico basato non su delle regole ma su come vengono costruite le strade: “pensiamo ad una infrastruttura stradale che, per via di come sono state asfaltate le corsie, impediscono agli automobilisti di svoltare a destra o a sinistra o di sostare in un punto se non ‘progettato’ dagli ingegneri della strada. In questo modello non ho bisogno di essere inseguito dalla polizia o di ricevere una multa via posta, se ‘violo’ il modello mi schianto e distruggo l’auto”.
Aneesh non si sbilancia in alcun giudizio personale circa questi tre differenti modelli di governance, dice semplicemente che “tutti e tre hanno delle potenzialità e dei limiti, funzionano in modo differente: i semafori possono rompersi, la targa fotografata da una videocamera potrebbe risultare illeggibile, un veicolo sportivo potrebbe essere in grado di superare le barriere fisiche del controllo del traffico…”.
Ma dopo l’analisi preliminare sul ‘potere’ degli algoritmi è evidente che il futuro di una possibile società algocratica cattura la mia attenzione. “Mentre le burocrazie sfruttano il modello di ‘orientamento all’azione’ (orientano le nostre personalità verso determinate norme), le algocrazie predeterminano l’azione verso determinati risultati”, spiega Aneesh. “Facendo un esempio pratico attuale, non conosciamo gli algoritmi di Google o Facebook anche se definiscono a priori il nostro possibile campo d’azione. Un effetto dell’algocrazia che oggi vediamo applicarsi anche sulle identità: le identità finanziarie (i punteggi di credito, per esempio), le identità di shopping (che ‘inquadrano’ un comportamento di acquisto) e addirittura le identità mediche (che raggruppano le persone a seconda di patologie o cure), sono tutte costruite algoritmicamente da diversi sistemi senza la nostra approvazione o coinvolgimento”.
Gli algoritmi decidono, quindi, i risultati dei motori di ricerca, le pubblicità che appaiono quando visitiamo un sito, le notizie a cui viene data rilevanza su Facebook, il programma più adatto per la lavatrice, ma anche le priorità nelle liste d’attesa per un trapianto, chi viene sottoposto a verifiche e controlli, ad es. fiscali o negli aeroporti, e molto altro. Gli algoritmi fanno parte di quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana dove c’è tecnologia.
Sono anche alla base di decisioni politiche e amministrative che ci riguardano direttamente come cittadini ma che non sempre sono documentate e trasparenti.




Sitografia di riferimento:

Verso un mondo governato dagli algoritmi - Nicoletta Boldrini
Algocrazia: il potere politico degli algoritmi - di Andrea Intonti
Algocrazia - di Licia Corbolante